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Così ci stanno trascinando nell’odio del mondo
Così ci stanno trascinando nell’odio del mondo
Volevo parlare di cibo, ma il sangue ha coperto ogni piatto
Ogni mattina mi siedo davanti al computer con la stessa intenzione: raccontare la bellezza.
Una bellezza fatta di profumi, sapori, mani che impastano, vigne che respirano, territori che parlano la lingua della vita vissuta.
Il mio mondo è fatto di olio che scorre sulle fette di pane caldo, di vini che raccontano le stagioni, di storie contadine che meritano un posto sulla pagina e nel cuore.
Ma da giorni, forse da settimane, la penna si blocca.
Non è stanchezza. È vergogna. È la voce interna che urla più forte del profumo del sugo, che sovrasta anche il più autentico racconto di cucina.
Perché là fuori il mondo non sta cucinando la vita, sta bruciando la dignità umana.
E mentre Gaza viene annientata, mentre le bombe cadono su corpi, sogni e infanzie, io non riesco più a parlare di cose buone.
Il mio editoriale oggi non profuma di basilico.
Sa di fumo, di cenere e di verità che nessuno vuole dire.
L’odio globale non basta più: Israele vuole compagnia
Israele non è più soltanto un attore nello scenario mediorientale.
È diventato il centro geometrico del risentimento globale, e lo sa.
Sa di essere odiato, disprezzato, temuto. Ma invece di cercare il perdono, sembra voler trascinare altri popoli nel suo abisso.
Perché l’odio, quando è isolato, pesa. Ma se condiviso, si diluisce, si maschera, si giustifica.
E così, in questa strategia cinica e perversa, Israele sta cercando di trasformare l’Occidente nei suoi complici permanenti.
Non per difendersi, ma per non rimanere l’unico bersaglio della Storia.
Vuole un’Europa pavida, pronta a firmare alleanze sotto il tavolo.
Vuole un’America addomesticata, sempre pronta a premere il bottone, a vendere missili, a sigillare silenzi.
E in questo gioco tossico, ci stiamo cascando.
Stati Uniti ed Europa stanno diventando colpevoli a braccetto, portatori sani di una democrazia svuotata, soldati involontari di una guerra che non ci appartiene ma che ci infetta ogni giorno di più.
Sotto il volto tirato del potere, l’Occidente sta cambiando pelle, e in quella metamorfosi silenziosa si sta guadagnando il suo posto tra i più odiati al mondo.
Proprio come Israele vuole.
Una superpotenza cieca, un presidente con il pugno chiuso
Una volta c’erano i presidenti che difendevano la pace, almeno nella forma, almeno nei discorsi.
Oggi c’è un uomo alla guida della prima potenza mondiale che non difende più nulla.
Non la diplomazia. Non la giustizia. Non i diritti. Solo il controllo. Solo le armi. Solo l’interesse.
Un presidente che si comporta come un monarca moderno, che impone la sua agenda con la freddezza di chi ha disimparato ad ascoltare, mentre i droni americani continuano a sorvolare il mondo, seminando tempeste.
L’alleanza con Israele non è più strategia, ma simbiosi tossica.
Due nazioni che si legittimano a vicenda nel sangue, convinte di poter riscrivere le regole del mondo perché ne detengono la cassaforte e la polvere da sparo.
E così, mentre Gaza scompare dalle mappe, l’obiettivo si allarga: l’Iran.
Un Paese difficile, pieno di ombre, dove i diritti delle donne vengono negati e la libertà è un lusso riservato a pochi.
Ma chi ha dato a Israele — e all’America che lo sostiene — il diritto di diventare giudice, giuria e boia del Medio Oriente?
Non siamo più davanti a una guerra.
Siamo davanti a un teatro di prepotenza, dove chi possiede le bombe decide chi ha diritto a vivere e chi no.
E l’Europa? Sta a guardare. In silenzio. O peggio, applaude.
Non è guerra. È sterminio.
Chiamarla guerra è una comoda bugia.
Una parola che illude di raccontare un conflitto tra due forze. Ma qui non c’è alcuna simmetria, alcuna equivalenza, alcun esercito che possa davvero rispondere.
Gaza non combatte. Sopravvive.
È una striscia di terra senza più ospedali, senza acqua, senza scuole.
Senza bambini vivi. Senza futuro.
Israele bombarda ogni giorno, ogni notte, ogni respiro.
E chi osa chiamare tutto questo “difesa”, si sta trincerando dietro la menzogna più oscena del nostro tempo.
Le bombe non distinguono.
Colpiscono grembiuli, piatti mezzi pieni, lenzuola spiegate, giochi abbandonati.
La parola “terrorismo” è diventata la foglia di fico del secolo, usata per giustificare ogni massacro, ogni violazione, ogni orrore.
Ma non si bombarda un’intera popolazione per estirpare un gruppo armato.
Non si distrugge un’intera civiltà per cancellare la paura.
E mentre accade tutto questo, l’Occidente parla di “equilibrio”, di “diritto alla sicurezza”.
Ma la sicurezza di chi? La nostra? Quella che compriamo al prezzo della carne altrui?
No.
Non è una guerra.
È uno sterminio. E siamo spettatori seduti in prima fila.
Un mondo ricco di bombe e povero di giustizia
Viviamo su un pianeta che spende più di 2.400 miliardi di dollari l’anno in armamenti.
Una cifra folle, indecente, da imperi decadenti.
Bombe, missili, droni, portaerei, scudi spaziali. Tutto per distruggere. Tutto per controllare. Tutto per dominare.
E mentre gli arsenali si riempiono, gli ospedali si svuotano.
Le scuole cadono a pezzi.
Le frontiere si riempiono di uomini e donne costretti a fuggire non da una guerra, ma da un sistema che ha scelto di non dare loro altra possibilità.
Chiamiamo “emergenza migratoria” ciò che è solo la logica conseguenza di un mondo che investe sulla morte invece che sulla vita.
Immagina, anche solo per un istante, se quei soldi fossero destinati ad altro.
All’istruzione pubblica gratuita, alla sanità universale, a un reddito minimo globale, al diritto all’acqua, al cibo, alla dignità.
Ci sarebbe lavoro. Ci sarebbe pace. Ci sarebbe speranza.
E invece ci dicono che “non ci sono i fondi”.
Ce lo dice chi spende miliardi per una guerra.
Chi firma assegni per eserciti, ma lascia milioni di bambini senza un banco, senza un vaccino, senza pane.
Siamo un mondo potenzialmente ricco come non mai, eppure ci comportiamo come il più meschino degli orfanotrofi, dove chi ha fame deve elemosinare e chi uccide ottiene il premio.
Non è solo ingiustizia.
È la follia lucida di un sistema costruito per uccidere la speranza.
Non restiamo muti davanti al fuoco
Ogni giorno, chi ha un microfono, una tastiera, una pagina, può scegliere.
Può riempire lo spazio con parole leggere, confortanti, rassicuranti.
Oppure può usare la voce per non lasciare soli gli ultimi, gli invisibili, gli macellati della storia.
Io, oggi, non posso parlare di cucina.
Non posso scrivere dell’olio buono, del vino sincero, del cibo che ci unisce.
Non oggi.
Oggi, mentre i bambini di Gaza vengono uccisi due volte: con le bombe e con il silenzio, ogni parola deve essere una lama affilata, una luce accesa nel buio della disumanità.
Domani forse tornerò a raccontare di pane e bellezza, perché la bellezza è resistenza.
Ma oggi no.
Oggi urlo. Oggi accuso. Oggi scrivo per non diventare complice.
A chi dice “non è il momento di parlare”, rispondo:
Non esiste un momento più giusto di questo.
E a chi crede che tutto questo sia lontano, che non lo riguardi, dico solo:
Se oggi non ti indigni per chi viene annientato, domani potresti essere tu quello di cui nessuno parlerà.
Questo editoriale è il nostro grido.
Forse inutile. Forse piccolo. Ma è libero, umano, vero.
E finché ci sarà una penna che non si piega, ci sarà ancora speranza.
Ma se scriviamo, allora qualcosa può ancora cambiare
Ogni giorno possiamo scegliere: stare in silenzio o parlare.
Accettare l’orrore o raccontarlo. Voltarci dall’altra parte o prenderci una responsabilità.
Io oggi ho scelto di non tacere.
E se sei arrivato fin qui, anche tu — nel tuo piccolo, nel tuo cuore — hai scelto di non essere indifferente.
C’è ancora una cosa che nessuna bomba, nessuna alleanza, nessuna propaganda potrà mai spegnere:
la coscienza umana.
Finché ci sarà qualcuno che scrive, qualcuno che legge, qualcuno che si emoziona,
la speranza resta in piedi, anche tra le macerie.
Perché la verità non muore sotto le bombe.
La verità cammina nelle parole, nelle scelte, nei gesti.
E oggi, anche solo condividendo un pensiero, possiamo essere parte di qualcosa di giusto.
In breve
Oggi più che mai, non serve solo parlare.
Serve sentire.
E se questo editoriale ti ha fatto sentire qualcosa, allora non è stato inutile.
Noi di Ciociaria&Cucina continueremo a raccontare, con coraggio e cuore.
Perché chi ama la vita, non può rimanere in silenzio.