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Gnocchi del 29
A volte, per ritrovare se stessi, basta tornare al gesto più semplice: mettere le mani in un impasto. È da lì che parte il nuovo racconto di Paola Pisano, che ci arriva, ancora una volta, da molto lontano — eppure sembra parlare proprio a ciascuno di noi.
In queste righe, Paola non ci racconta solo una ricetta, ma un legame che attraversa tempo, oceani e generazioni. Ci parla di gnocchi del 29, di domeniche rumorose e familiari, del 29 del mese e di quella moneta sotto il piatto che, più che un rito, è una promessa: che anche nelle giornate più difficili, c’è sempre un modo per ritrovare casa.
In un tempo in cui tutto sembra consumarsi in fretta — relazioni, pasti, tradizioni — Paola ci riporta alla cucina come spazio sacro e imperfetto. Fatto di farina tra le dita, di errori ripetuti e di mani che insegnano. E lo fa con una scrittura così autentica che sembra lievitare da sola, come l’impasto quando è giusto.
“Tre terre, un impasto” è molto più di un articolo: è un invito a riprendere in mano il tempo, a ricucire memorie, a fare della cucina un ponte tra ciò che siamo stati e ciò che vogliamo restare.
Grazie, Paola, per ricordarci che l’identità si impasta, si condivide e si serve con amore.
Alfio Mirone
Il sapore dei ricordi e il rito del 29
Ho imparato a fare gli gnocchi solo dopo aver lasciato l’Argentina. Era il mio primo inverno in Texas, e la nostalgia mi stringeva come un grembiule legato troppo stretto. Non sapevo quale farina comprare, non avevo il rigagnocchi, e avevo fatto un mezzo disastro nella cucina del mio piccolo appartamento di Austin. Ma sotto quel caos c’era un’unica certezza: mi mancava la mia casa, il mio cibo, e il profumo della cucina di mia madre. Ma soprattutto mi mancava il rito del 29, quando, nella mia famiglia a Buenos Aires, si preparavano gli ñoquis. Era molto più di una ricetta: era un modo per sentirsi uniti.
Da Buenos Aires al Texas: un ponte di farina e amore
In quella cucina americana, con mani impacciate e cuore colmo, ho iniziato a impastare. Ho chiamato mia madre su Skype. Lei mi guidava, rideva, mi diceva quando l’impasto era troppo duro, troppo molle. A poco a poco ho imparato: non con le dosi, ma con il tocco. Ho capito che certe sapienze si trasmettono nei gesti, non nei libri. E con il tempo, quel gesto è diventato parte della mia vita nuova. Ora, ogni 29 del mese, impasto con mia figlia. Le sue mani piccole affondano nella farina come se fosse sabbia magica. E io, guardandola, sento che sto facendo qualcosa di più che cucinare: sto tramandando una storia.
La leggenda di San Pantaleone e la moneta sotto il piatto
Gli ñoquis del 29 affondano le radici in una leggenda che unisce la fede e la fame: San Pantaleone accolto da una famiglia povera che gli offrì un piatto di gnocchi. Da allora, si dice, portarono fortuna. Con gli immigrati italiani arrivati in Sud America, questa usanza divenne un gesto collettivo: preparare qualcosa di semplice a fine mese, quando i soldi finivano, ma la speranza restava. Oggi, quel gesto non ha perso valore. Anzi, ha acquistato senso. Mettere la moneta sotto il piatto è augurio, ma anche gratitudine.
Dalla Ciociaria a Austin: un impasto che unisce le radici
Rileggo queste parole e mi accorgo che, senza volerlo, sto cucendo con i ricordi un ponte tra tre terre. L’Argentina, dove tutto è iniziato. Il Texas, dove vivo oggi. E l’Italia, da cui arriva la farina che uso per i miei impasti: una farina che viene dalla Ciociaria, da un molino che porta il nome Polselli. Quasi a dire che tutto torna, che le radici trovano sempre un modo per abbracciarsi, anche a distanza.
Impastare non è solo nutrire. È costruire un’appartenenza. È insegnare a mia figlia che ogni gesto, anche il più semplice, può contenere il mondo. Che la cucina non è solo un luogo: è una lingua che parla d’amore, di famiglia, di identità. E ogni gnocco che faccio, ogni 29 del mese, è una preghiera silenziosa che lega passato e futuro tra le mie mani.