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In punta di strada
In punta di strada
Breve sunto delle puntate precedenti
Stiamo imparando a conoscere Annabelle, e non solo attraverso le pagine di questo romanzo, ma anche grazie a voi, lettori. I vostri messaggi e le vostre mail ci confermano quanto questa storia vi stia toccando nel profondo, quanto vi stiate affezionando a lei, riconoscendo frammenti della vostra stessa esperienza nei suoi passi incerti, nelle sue battaglie silenziose.
Stiamo camminando con Annabelle nei suoi giorni più difficili, tra il silenzio di chi dovrebbe accorgersi e la crudeltà di chi sceglie di ignorare. Stiamo vedendo la sua forza nel restare in piedi, nel cercare conforto tra le pagine della letteratura, nel riconoscere una speranza anche in un piccolo gesto di gentilezza.
Dalla prima puntata, che ci ha aperto la porta sul suo mondo segnato dalla solitudine e dall’incomprensione, siamo entrati sempre più a fondo nella sua realtà. Nel secondo capitolo, il bullismo e l’indifferenza si sono fatti più feroci, e ora, in questa terza puntata, ci troviamo davanti a un altro peso che Annabelle porta con sé: quello della sua famiglia. Qui la violenza non è solo quella che si vede, ma anche quella delle parole taciute, degli sguardi che giudicano, dell’invisibilità che logora.
Carmela La Rocca non si limita a scrivere, ci accompagna dentro il cuore di una realtà scomoda, dando voce a chi spesso non riesce a trovarne una. Il suo stile, delicato ma incisivo, ci ricorda che dietro ogni silenzio c’è una storia, dietro ogni resistenza c’è una battaglia, e che, a volte, la vera forza sta nel non smettere di sperare.
Siamo ancora qui, accanto ad Annabelle, e continueremo a seguirla nel suo viaggio. Perché ogni passo che compie, ogni emozione che attraversa, è un frammento di vita che merita di essere ascoltato.
I Capitolo – II Capitolo
III Capitolo
Come pioggia violenta, migliaia di goccioline salate continuarono a caderle lungo il viso, abbattendosi possentemente sopra i suoi vestiti e sulla porzione di suolo che ospitava la sua figura. Singhiozzi strozzati riecheggiarono nell’aria, mentre gli occhi, tristi e stanchi, non accennarono ad abbandonare le immagini che le si erano presentate: il suo zaino, ancora bagnato dalle ore precedenti, giaceva sul pavimento completamente vuoto, con le spalline tagliate. L’astuccio e tutto il materiale in esso contenuto furono gettati nel piccolo secchio grigio della spazzatura, mentre i quaderni ed i libri furono lasciati sul banco, sgualciti, con le copertine anch’esse tagliate. Il suo portapranzo scomparve, così come il giacchetto, dove, all’interno della tasca interiore, si trovava custodito il piccolo bracciale di perline colorate.
In quel momento, ogni suo briciolo di controllo e la forte convinzione all’abitudine al dolore, che pensava di avere completamente nelle sue mani, si frantumarono in mille pezzi: un’altra rottura totale si aggiungeva alla sua essenza. Per lei, realizzare tutto ciò fu un colpo duro da incassare: la sua maschera, infatti, crollò, lasciandola nuda e strappata della sua dignità davanti a tutti, mentre le risate e i commenti dei suoi bulli risuonavano forti ed imponenti tra le pareti di quella piccola stanza.
Uno di loro le si avvicinò ed, afferrandola bruscamente per il braccio, la strattonò fino a raggiungere il suo banco; la sua voce brusca e il grande colpo che egli diede al banco la risvegliarono dal suo blocco.
«Quando piangi, sei ancora più orrenda. Ho fatto uno sforzo disumano solo per portarti fin qui, ma dovevo farlo perché devo ricordarti che, se farai parola a qualcuno di quello che succede, questo sarà niente a confronto di ciò che faremo. E ora, raccogli queste due cose da poveraccia che hai e siediti, come non fosse successo nulla.»
Annabelle tremò e la sua gola si chiuse completamente: fu incapace di rispondere, di respirare, di pensare. Non poteva continuare così, ma non poteva neanche dirlo a qualcuno: bloccata in un amaro limbo dal quale non sarebbe mai uscita.
«Hai sentito, sfigata? Raccogli i tuoi stracci. Ti conviene farlo prima che arrivi il professore.»
Sentì pronunciare da un’altra voce.
Lei annuì debolmente, mosse leggermente il capo verso il basso e si sottomise ai suoi aguzzini, muovendosi lentamente da una parte all’altra della stanza per radunare tutto, come fosse uno zombie, e, una volta terminato, si fiondò a peso morto sulla sedia.
Tutti presero posto, cominciarono ad occuparsi delle loro cose, come non esistesse, come non fosse mai esistita, come non fosse successo nulla, perché era così: Annabelle esisteva solo per passatempo, un gioco contorto per le loro menti cattive.
Non appena il professore fece il suo ingresso, tirò un sospiro di sollievo ed accantonò tutto l’accaduto in un piccolo scrigno della sua mente, proiettando tutta la sua attenzione verso la lavagna multimediale color lavanda, che prese a riprodurre slide di informatica.
Il tempo volò e anche la campanella dell’ultima ora suonò, decantando il glorioso momento dell’uscita e della libertà. Attese che tutti uscissero: come pecore di un gregge, prevedibili e monotone, si ammassarono uno insieme all’altro e corsero via, lasciandola finalmente sola.
Con molta calma, mise tutto nello zaino, prendendosi del tempo per pensare a come avrebbe giustificato tutto ciò a suo padre, o meglio, a quale scusa avrebbe potuto inventare questa volta.
La sua reazione era ciò che temeva di più: l’avrebbe incolpata, si sarebbe catapultato lì, urlando a tutti, peggiorando la situazione, e poi l’avrebbe nuovamente incolpata.
“Non sai farti rispettare. Sei debole. Sei tu che gli permetti di fare questo, perché tanto i soldi non sono i tuoi. Basta che compro, basta che hai tutto servito e riverito, come lo meritassi.”
Queste sarebbero state le parole che le avrebbe rivolto, ne era più che sicura: non poteva permetterlo.
E così, sfinita, si affrettò ad uscire, dirigendosi, passo dopo passo, verso casa… ma la strada sembrava non terminare mai e, ad ogni metro che la portava sempre più vicina alla meta, la sua ansia cresceva, la sua paura la divorava, lasciando sempre più un corpo vuoto che trascinava se stesso.
Nel momento in cui realizzò di essere arrivata già davanti alla porta, la sua preoccupazione su cosa avrebbe dovuto o potuto dire salì ancora di più; titubante, guardò il campanello con un magone nello stomaco distruttivo: non voleva suonare, non voleva entrare.
Un improvviso rumore, però, la fece sobbalzare e la porta si aprì, rivelando la figura del padre in procinto di uscire. Il suo sguardo cadde sul viso dell’uomo e lo studiò a fondo per capire che tipo di umore avesse in quel momento: la sua espressione arrabbiata, il respiro irregolare, le labbra pressate e il tremore della mano la fecero intimorire ancor di più. La paura di come avrebbe reagito alla sua presenza, di cosa avrebbe potuto dire da lì a pochi istanti, la consumarono interamente.
«Che stai facendo qua davanti così immobile?»
Eccola, la prima domanda. Il tono duro e severo che non lo abbandonava mai.
«Sono arrivata adesso, papà. Stavo per suonare e sei uscito tu.»
La guardò interrogativo. Come non le credesse. Poi annuì.
«Vabbè, entra, muoviti, che mammeta ha fatto il pranzo. Mi ha fatto pure avvelenà.» Disse comandando.
«Va bene.» Rispose semplicemente. Incapace di dire o fare altro.
Il padre la sorpassò e si diresse verso la sua destinazione misteriosa, mentre lei rientrò cautamente nell’abitazione, rinchiudendosi la porta alle spalle, attenta a non sbatterla.
Subito la figura della madre e del fratello, seduti a tavola, visibilmente giù di morale e scossi, le saltarono agli occhi: mangiavano minuziosamente dai loro piatti in un silenzio tombale, con la televisione, più bassa del solito, a incorniciare l’immagine.
Ma, quando si accorsero della sua presenza, alzarono lo sguardo su di lei: la madre le rivolse un dolce e triste sorriso, il fratello un cenno del capo nervoso.
Si diresse verso la sua camera, abbandonando tutto sul letto e, dirigendosi nuovamente verso la sala, fu subito pronta a mangiare. Notò con molto piacere che la protagonista del suo pranzo sarebbe stata una bellissima bistecca contornata da patate al forno e, con l’acquolina in bocca, non aspettò oltre per divorare il tutto.
Si sviluppò tutto con uno scenario statico e robotico: l’aria era tesa, pregna del precedente marchio dell’uomo di casa. Gli unici rumori che si potevano udire erano le forchette che delicatamente sbattevano sul piatto e il rosicchiare del cane, comodamente poggiato sul cuscino del divano.
Ella non fece domande, perché sapere le avrebbe comportato altri problemi, pensieri, e non ne voleva.
Così, quando la madre si alzò pigrosamente dalla sedia, l’unica cosa che fece fu quella di aiutarla a liberare il tavolo, spazzare il pavimento e avviarsi verso la sua camera, pronta per una sessione di studio intensiva.
Con il dispiacere verso lo stato delle sue cose, preparò ugualmente tutta la scrivania al meglio, prese posto nella piccola sedia rossa e posizionò la calcolatrice al lato destro.
Non appena aprì il libro, però, il suono di un messaggio al suo vecchio Nokia la distrasse dalla sua determinazione.
«Ei Anny. Sono Serena.»
Sorrise. Decise di lasciar perdere lo studio per un po’ e si focalizzò sui messaggi della sua amica.
«Ciao Serena. Tutto bene?»
«Veramente ti ho scritto perché ho saputo di oggi. Mi dispiace. Ignorali. Stai bene? Io tutto bene comunque, grazie.»
Sorrise genuinamente. Adorava l’idea di avere finalmente qualcuno, in quel momento, con cui poter parlare.
«Lo so, lo so. Non mi abbatteranno. Sto bene.»
Mentì. Mentì spudoratamente. Perché lei non stava bene, non lo sarebbe mai stata. E forse era come diceva suo padre, o come dicevano tutti: se lo meritava. Lo permetteva lei.
«Bene, sono contenta. Comunque sabato pomeriggio pensavo di uscire insieme, se a te va. Verranno anche degli amici. Ci sarai, vero?»
Annabelle non seppe come reagire a quella richiesta: euforica e, al contempo, spaventata.
Suo padre non glielo avrebbe permesso, ma lei non poteva farne a meno, ne aveva bisogno e, dopo qualche minuto di esitazione, rispose confermando la sua presenza.
Ma non appena l’invio del messaggio avvenne con successo, ecco che un fortissimo rumore ed un conseguente tonfo, provenienti dalla sala, invasero la sua apparente tranquillità.
Le urla e quelle parole le arrivarono dritte al petto…
(continua…)