Il futuro ha un sapore nuovo (e si chiama vegetale)

L’editoriale di Alfio Mirone racconta la scoperta dei formaggi vegetali e invita la ristorazione ad inserirli nei menu come nuova esperienza di gusto.

Il futuro ha un sapore nuovo (e si chiama vegetale)

Il futuro ha un sapore nuovo (e si chiama vegetale)

Editoriale di Alfio Mirone

Sono tornato a scrivere di enogastronomia. E mi ci voleva. Dopo tante parole su guerra, giustizia e ingiustizia, su ciò che divide, mi serviva qualcosa che unisse. E nulla è più universale del cibo. Nulla parla più sinceramente al cuore – e alla pancia – di una tavola condivisa.

Eppure, qualcosa è cambiato. Il mondo corre veloce, e con lui cambiano anche i gusti, le scelte, le abitudini. Intorno a me aumentano gli amici che scelgono di diventare vegani. E non lo fanno solo per gli animali – anche se questo basterebbe – ma per salute, per etica, per consapevolezza ambientale.

All’inizio, lo ammetto, ero perplesso. Poi è arrivato un assaggio. Poi un altro. E un altro ancora. Oggi mi ritrovo a degustare formaggi che non sono formaggi, ma che raccontano storie nuove, fatte di fermentazioni vegetali, mandorle, anacardi, ceci, riso germogliato. Non hanno la pretesa di imitare un parmigiano o un taleggio. Non ci somigliano quasi per niente. Ma – ed è questo il punto – non devono.

Perché il loro compito non è imitare, ma esistere. Farsi conoscere, trovare un posto tutto loro nelle cucine, nei taglieri, nelle fantasie culinarie di chi guarda avanti.

In fondo, è successo anche con il vino senza solfiti, con i pani da grani antichi, con la birra artigianale. All’inizio si storce il naso. Poi si assaggia. Poi si comprende. E magari, si ama.

La nuova frontiera del formaggio vegetale in Italia non è solo un fenomeno gastronomico. È una rivoluzione culturale, un linguaggio inedito per parlare di territorio, artigianato, nutrizione.

Ci sono giovani aziende che stanno scrivendo pagine sorprendenti. Alcune le ho assaggiate, altre mi sono state consigliate da chi di gusto ne ha da vendere. Non voglio fare classifiche, né stilare elenchi infiniti, ma se dovessi suggerire a chi è curioso da dove iniziare, indicherei sicuramente:

  • Fermaggio di Roma, con la sua Mezzarè e le scamorze vegetali affumicate.
  • Il Cashewficio di Genova, che fermenta anacardi e affina con eleganza.
  • Verys di Treviso, pionieri del riso germogliato.
  • Dreamfarm di Parma, che ha conquistato anche le pizzerie gourmet.
  • Dall’Albero e Julietta Lab, due laboratori romani che sembrano usciti da un libro di chimica e poesia.
  • E poi, a sorpresa, una piccola realtà molisana che mi ha stupito: Alma Veg, con un formaggio tipo provola affumicata che… va provato.

Sono solo assaggi. Assaggi di un mondo che non ha più bisogno di negare le sue origini per sentirsi degno.

Il formaggio vegetale non è “finto formaggio”. È un nuovo prodotto. Un nuovo nome. Una nuova identità.

E chi ama davvero il gusto, non dovrebbe mai chiudere la porta al nuovo.

E allora, da giornalista che racconta il cibo e da testimone curioso di ogni evoluzione che attraversa i nostri piatti, mi sento di lanciare un invito alla nostra ristorazione – a quella più consapevole, attenta, capace di ascoltare.

Perché non provare a inserire, accanto ai grandi classici della tradizione, una selezione di formaggi vegetali artigianali? Non per moda, non per obbligo, ma per scelta culturale, per apertura mentale, per amore verso chi – oggi – cerca nuovi sapori senza rinunciare al piacere.

Il gusto non ha un solo linguaggio. Ma ha sempre bisogno di chi sappia raccontarlo.