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Cento giorni e sto
Cento giorni e sto
Editoriale di Alfio Mirone
L’arroganza come metodo. Il pensiero come resistenza
Non sono bastati 100 giorni per cambiare il mondo, ma sono stati più che sufficienti per mostrare, ancora una volta, fino a che punto può spingersi l’arroganza quando non incontra ostacoli.
Il nuovo presidente degli Stati Uniti, inevitabilmente Trump, ha riportato in scena il volto più volgare del potere: quello che decide da solo, urla, confonde il profitto con la verità, muove i mercati come tasti di un videogame, mettendo dazi e ritirandoli per guadagnare miliardi mentre gli altri contano i danni.
E nel frattempo, tra un tweet e una provocazione, sogna il Canada, desidera la Groenlandia, e immagina il Golfo del Messico come suo nuovo cortile di casa.
Non è geopolitica. È edilizia del potere, fatta con la mentalità di un palazzinaro in cerca del prossimo affare.
Ma più del rumore, preoccupa l’assenso silenzioso di chi lo sostiene.
Di chi gli sorride accanto, lo accompagna con complicità e tace.
Un silenzio che non è solo complice: è stupido, vile, rassegnato.
E quando l’ignoranza si fa norma, accade anche che nessuno si indigni se un uomo si traveste da papa per gioco.
Una scena surreale, grottesca — eppure reale.
Trump vestito da pontefice.
Una maschera che dice tutto: non basta governare, vuole essere venerato.
E il problema non è nemmeno lui. È chi commenta, senza capire.
Un italiano — che chiameremo così per delicatezza — ha confuso quel travestimento con l’abbigliamento cerimoniale di uomini di governo provenienti da culture lontane dalla nostra, dove la diversità degli abiti racconta la storia e la dignità di un popolo.
Il risultato? Non solo ignoranza. Ma un vuoto culturale che fa paura.
Fa paura perché è lì che germoglia il consenso.
Nel frattempo, intorno a Trump — e a molti altri come lui, leader che accentrano potere e reprimono dissenso, da Netanyahu a figure più o meno rumorose ma altrettanto pericolose — si continua a edificare un mondo in cui la democrazia è messa in pausa.
E la vera tragedia è che non ce ne accorgiamo.
Perché ci hanno insegnato che l’importante è vincere, possedere, apparire.
Che pensare è una perdita di tempo.
Che leggere è per pochi.
Che la complessità è un problema, e non una ricchezza.
Ma chi ha ancora il coraggio di fermarsi a riflettere, sa che l’arroganza è il sintomo di un sistema malato.
E che l’unico antidoto possibile è il pensiero.
La lentezza, la cultura, la filosofia, la responsabilità delle parole.
L’informazione, in tutto questo, ha un compito altissimo.
Non deve solo indignare.
Deve spingere a domande nuove, a inquietudini sane, a una consapevolezza che vada oltre il tweet e il titolo gridato.
Perché se continuiamo ad accettare come “normale” la sceneggiata di un presidente mascherato da papa, allora non ci sorprenderà quando vorrà comportarsi anche da Dio.
E a tutto questo, ci avevano insegnato come si risponde.
Ce lo insegnavano i nostri professori ormai estinti, uomini di pensiero e di rigore.
Ce lo ricordavano le nostre famiglie, quelle che avevano ancora il senso dell’educazione civile.
Si risponde mettendo in disparte ciò che è tossico.
Si risponde con l’indifferenza verso chi si nutre di provocazione.
Non con l’odio. Non con l’imitazione. Ma con il silenzio che isola, con l’esempio che smonta il teatrino.
Perché il potere, senza attenzione, perde voce.
E l’arroganza, senza pubblico, torna ombra.
100 giorni e sto!